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sabato 11 agosto 2012

Il linguaggio Orwelliano dietro la crisi della zona Euro

Il linguaggio Orwelliano dietro la crisi della zona Euro
  10 agosto 2012 
di Andrew Marshall – 28 luglio 2012 – Roarmag


Il linguaggio politico serve a rendere credibili le bugie e rispettabili gli omicidi.
E serve a dare un apparenza di solidità a ciò che è solo vento.
– George Orwell, Politics and the English Language (1946)

Il linguaggio politico funziona attraverso eufemismi, con l’utilizzo di parole dal suono dolce o prive di significato che descrivano politiche e scopi malvagi e deleteri.
Nella crisi economica europea il linguaggio adottato da politici, economisti, tecnocrati e banchieri è costruito per fare in modo che politiche mirate a creare povertà e sfruttamento riescano a sembrare logiche e ragionevoli.
Il linguaggio in questione include frasi e parole simili:
austerità fiscale/consolidamento, aggiustamento strutturale/riforma, flessibilità lavorativa, competitività, crescita.

Per comprendere il linguaggio politico è necessario tradurlo.
Questo processo richiede quattro fasi:

  1. Osservare tale retorica come naturalmente priva di significato
  2. Esaminare le politiche intraprese
  3. Valutare gli effetti di tali politiche
  4. Se gli effetti non corrispondono alla scelta retorica iniziale e, nonostante questo, tali politiche vengono ripetute ancora e ancora allora gli effetti vanno tradotti come REALE SIGNIFICATO della scelta retorica iniziale.
In questo caso dunque la retorica ha un significato ma tale valore non corrisponde al suo significato apparente.
La crisi del debito ha seguito la crisi finanziaria del biennio 2007-2009 investendo prima la Grecia, poi l’Irlanda, il Portogallo, l’Italia e la Spagna. Adesso questa situazione minaccia anche il resto del mondo.
Dei paesi citati solo l’Italia non è ancora stata “soccorsa” finanziariamente.
Con o senza questo “soccorso” le popolazioni dell’Europa sono comunque state forzate a subire “misure di austerità”, un eufemismo politico-economico per tagliare spese sociali, assistenza sanitaria, servizi sociali, posti di lavoro del settore pubblico e infine aumentare le tasse.
Davanti alle proteste della gente gli stati hanno risposto con agenti in tenuta antisommossa, manganelli, lacrimogeni, spray al peperoncino e proiettili di gomma.
Tutto questo viene chiamato “ristabilire l’ordine”.
Gli effetti dell’austerità sono l’aumento della povertà, la disoccupazione e la miseria.
I dipendenti vengono licenziati anche dai settori pubblici, i benefici sociali e l’assistenza vengono ridotti od eliminati, l’età pensionabile viene innalzata per costringere le persone a lavorare e tenerle lontane dal sistema pensionistico, a sua volta tagliato.
Tagli alla sanità ed al sistema scolastico chiedono un conto sociale e fisico.
Con la povertà aumenta l’esigenza di una migliore sanità che invece viene dismessa proprio quando è maggiormente necessaria.
Vengono aumentate le tasse e diminuiti gli stipendi.
Aumentano i debiti e gli insolventi.
L’obiettivo, ci viene detto, è la riduzione della spesa pubblica in modo che il governo possa ridurre il debito.
In Europa l’austerità è stato il richiamo preferito per le agenzie, le organizzazioni e gli individui che rappresentano gli interessi delle élite finanziarie.
A marzo del 2012 il OECD  (Organisation for Economic Co-operation and Development) ha suggerito all’Europa di adottare un programma di austerità della durata di minimo sei anni, dal 2011 al 2017, programma che il Financial Times ha definito “estremamente sensibile“.
Ad aprile del 2010 la  Bank for International Settlements (BIS) (BRI in italiano: Banca dei Regolamenti Internazionali) , la banca centrale delle banche centrali, ha chiesto alle nazioni europee di adottare misure di austerità.
A giugno del 2010 i ministri economici del G20 hanno concordato: era tempo di entrare nell’era dell’austerità.
Il cancelliere tedesco Angela Merkel, sostenitrice europea dell’austerità, ha voluto dare il buon esempio al resto d’Europa introducendo le prime misure nel suo paese.
Dunque il leader del G20 si sono incontrati e hanno concordato che il tempo per gli incentivi economici era finito ed eravamo ormai prossimi al periodo della povera austerità.
Ovviamente una simile scelta ha trovato il plauso del presidente tecnocrate non eletto della Commissione Europea: Josè Manuel Barroso.
Anche il non eletto presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rampuy, ha concordato chiarendo con la sua esplosiva saggezza economica che l’austerità “non ha effetti reali sulla crescita economica“.
Jean Claude Trichet, presidente della BCE (Banca Centrale Europea) è ovviamente saltato sul treno dell’austerità scrivendo sul Financial Times che “adesso è tempo di ripristinare la sostenibilità fiscale“.
Jaime Caruana, amministratore generale della  Bank for International Settlements (BIS) ha dichiarato, a giugno del 2011, che l’esigenza di austerità era “più urgente che mai” mentre il presidente della BRI, Christian Noyer, anche governatore della Banca di Francia (e membro del consiglio della BCE) ha affermato che “non ci sono soluzioni possibili” per la Grecia se non l’austerità.
Ad aprile del 2011 i due presidenti dell’Unione Europea, Barroso e Van Rompuy, hanno sentito il bisogno di chiarire (nel caso qualcuno si fosse fatto un’idea sbagliata) quanto segue: “Alcuni credono che le nostre intenzioni siano quelle di smantellare lo stato sociale e l’assistenza. Non è così. Noi vogliamo salvare questi fondamentali aspetti del modello europeo. Vogliamo essere sicuri che le nostre economie siano sufficientemente competitive per creare lavoro e sostenere l’assistenza sociale di tutti i nostri cittadini. Ed è su questo che stiamo lavorando”.
In ogni caso, l’anno successivo, il nuovo presidente della BCE, Mario Draghi, (ex governatore della Banca D’Italia), ha dichiarato in un’intervista al Wall Street Journal che “non ci sono alternative al consolidamento fiscale”, inteso come austerità, che il contratto sociale in Europa è “obsoleto” e che il modello sociale “ormai è già andato“.
Draghi ha chiarito anche che è necessario promuovere la “crescita” aggiungendo che “è per questo che le riforme strutturali sono così importanti“.
Il “pacchetto austerity” preparerà dunque stato ed economia per la fase successiva che, ci viene detto, renderà il paese “competitivo” e creerà “crescita”.
E’ così che i paesi pagheranno il debito totale, di cui i deficit sono solo una parte.
Questo processo è chiamato “aggiustamento strutturale” (o “riforma strutturale”) e richiede “competitività” per generare “crescita”.
Così come possiamo approssimativamente tradurre “austerità” con povertà in modo analogo possiamo tradurre “aggiustamento strutturale” con sfruttamento.
Dopo tutto niente funziona meglio con la povertà se non lo sfruttamento!
Come si verifica che un “aggiustamento strutturale” si trasformi in sfruttamento?
Beh, ovviamente attraverso competitività e crescita!
Gli aggiustamenti strutturali implicano che gli stati liberalizzino l’economia in modo che ogni elemento venga “deregolamentato” e che quindi tutte le proprietà statali vadano privatizzate (parliamo dunque di reti di comunicazione, ospedali, aeroporti, fiumi, acqua, risorse energetiche, aziende statali, servizi… etc. etc.)
Ovviamente la storia ci racconta che questo sistema incoraggia “investimenti” nel paese “proprio quando sono più necessari”.
L’idea suggerisce che le banche straniere e le multinazionali entreranno nel “mercato”, sceglieranno queste straordinarie realtà in vendita, chiariranno che tutto funziona meglio quando c’è “la competizione” nel “libero mercato” e che con i nuovi investimenti creeranno nuove industrie, impiegheranno mano d’opera locale, riavvieranno l’economia e, secondo il criterio della marea che solleva tutte le barche, innalzeranno gli standard di vita e aumenteranno le opportunità.
Ma prima che questo accada altri “aggiustamenti strutturali” devono essere contemporaneamente attivati.
Uno dei più importanti viene chiamato “flessibilità”.
Questo significa che se hai una tutela salariale, ore di lavoro ragionevoli, benefici, pensione… bene adesso non hai più nulla.
Se sei membro di un sindacato o sei coinvolto in una contrattazione collettiva (che tra gli altri strumenti conta il diritto allo sciopero) presto non lo sarai più.
Il motivo è semplice: vanno abbassati i salari per aumentare la competitività della forza lavoro.
Detto in modo ancora più semplice: meno soldi vanno nel lavoro durante il suo processo di produzione, meno costerà il prodotto finale sul mercato e di conseguenza risulterà più appetibile sul mercato.
Sempre di conseguenza con salari più bassi arrivano profitti più alti.
Lo stesso Mario Draghi ha segnalato che le “riforme strutturali” di cui ha bisogno l’Europa sono “le riforme dei prodotti e dei servizi” e che “la riforma del mercato del lavoro assumerà caratteristiche diverse secondo i diversi paesi”.
Ha aggiunto che l’obiettivo è di rendere “i mercati del lavoro più flessibili ed equi di quanto non siano adesso”.
Non è carino?
Vuole rendere i mercati più equi.
Questo vuole dire che, dato che alcuni paesi hanno tutele per diverse categorie di lavoro, questo non è corretto nei confronti di chi non ha protezioni perché, come spiegato da Draghi, “in questi paesi c’è un doppio mercato del lavoro: estremamente flessibile per i giovani e fortemente rigido per la parte tutelata della popolazione”.
Attualmente i mercati del lavoro sono squilibrati perché fanno gravare il peso della flessibilità sulla parte giovane della popolazione”
Dunque per rendere i mercati equi devono tutti essere ugualmente sfruttati  e ugualmente flessibili.
La flessibilità “specializzerà” il paese nella produzione di pochi selezionati beni che saranno dunque prodotti meglio, a prezzo più conveniente e in quantità maggiore che altrove.
Quindi l’economia andrà bene e migliorerà la vita di tutti… tranne per lo stipendio!
Infatti l’aumento del salario e dei compensi riguarderà solo i dirigenti delle multinazionali, delle banche e dei governi.
Questo perché loro si assumono tutti i rischi (ricordate che voi non rischiate niente quando accettate passivamente uno stipendio ed un livello di vita che, qualitativamente, decrescerà molto in fretta) e di conseguenza devono ottenerne tutti i benefici.
Però con simili compensi cadranno anche delle briciole dal tavolo e finiranno in terra dove, alla fine, gente pagata con salari da schiavi potrà lottare nella speranza di sopravvivere.
Secondo una legge che, senza problemi, definirei “magica” tutto ciò permetterà che i poveri derelitti destinati ad una vita di stenti possano elevarsi e giovare dei frutti che derivano dal trovarsi in un paradiso moderno, tecnologico, capitalista e democratico.
O almeno così raccontano le favole.
Il risultato attuale, dimostrato ed ampiamente prevedibile, di questo “aggiustamento strutturale” mirato a farci raggiungere la “crescita” attraverso la “competitività” è lo sfruttamento.
La privatizzazione della struttura economica permette alle banche straniere ed alle multinazionali di arrivare e comprare le risorse, le infrastrutture e le ricchezze più in generale.
Dato che questo tipo di operazione viene attuata in situazioni di crisi ogni entità/prodotto/struttura viene letteralmente svenduta.
Questo si verifica perché tali banche e multinazionali fanno un “grosso favore” alle popolazioni ed ai governi decidendo di investire in zone ad alto rischio.
I soldi guadagnati dallo stato in queste operazioni servono a ridurre il deficit.
Per la gente comunque il risultato però è disoccupazione di massa, aumento di prezzi, aumento del costo dei servizi di base ed aumento della povertà.
Ma ovviamente le privatizzazioni hanno dei benefici, ricordate: incoraggiano la “competitività”.
Se ogni cosa viene privatizzata tutti faranno a gara per vedere il miglior prodotto al prezzo più basso e tutti potranno prosperare in una società di perenne abbondanza.
Quello che in realtà accade è che le multinazionali e le banche, che comunque già posseggono gran parte delle risorse mondiali, adesso posseggono pure voi.
Non è competizione perché, in ultima analisi, sono quasi tutti cartelli collusi gli uni con gli altri al fine di sfruttare risorse e beni in giro per il mondo.
La competizione è solo per chi produce, controlla e sfrutta di più rispetto agli altri.
Ma in fondo a questo sistema tutti gli altri restano poveri.
Viene chiamata “competitività” ma significa controllo.
Quando dunque si dice che l’economia necessita di “competizione” quello che davvero si sta dicendo è  che è necessario un maggior controllo.
E questo controllo devono metterlo in atto le multinazionali e le banche.
Le aziende statali vengono semplicemente chiuse, gli impiegati sono licenziati ed i prodotti o le risorse che quell’industria produceva vengono di conseguenza importati da un altro paese o multinazionale.
Una multinazionale altro non fa: prende il controllo di un bene od una risorsa locale e la estrae o la produce per propri fini.
Ma questo richiede lavoro.
Ed è una buona cosa che la forza lavoro abbia la schiena spezzata da austerità ed aggiustamenti dato che questo approccio evita tutele lavorative, paghe decenti, ore di permesso, sindacati a difesa o più in generale elimina i diritti dei lavoratori.
Ovviamente il prodotto finale dunque risulta più economico e di conseguenza più “competitivo”.
Questo potrebbe rivelarsi estremamente remunerativo per le multinazionali che si assumono tutto il rischio (ricordate: non contate nulla. Partite con poco e dunque poco avete da perdere. Loro hanno molto e dunque molto possono perdere. E’ questo che significa rischio)
Se i lavoratori provano a creare un sindacato, organizzandosi per chiedere un salario più alto la proprietà può semplicemente chiudere l’impianto, spostare il lavoro altrove dove sia possibile trovare forza lavoro più flessibile.
O, al più, possono assumere immigrati locali e pagarli meno per farli lavorare più ore lasciando voi senza lavoro.
Questa si chiama “flessibilità”.
“Flessibilità” dunque si potrebbe tradurre in “lavoro a basso costo”: portare tutti ad un livello di standard lavorativo equamente basso incoraggiando dunque “l’utilizzo della mano d’opera” ovvero lo sfruttamento.
Nel “Terzo Mondo” questo risultato è stato perfettamente raggiunto attraverso le “Export Processing Zones (EPZs)”  (“Zone industriali di esportazione” in italiano).
Questo termine designa aree specifiche al di fuori del controllo di uno stato dove le multinazionali siano libere di creare aziende per sfruttare senza vincoli la forza lavoro.
Sono importate le risorse necessarie per la creazione del bene che, una volta prodotto, viene esportato all’estero, libero anche dalle tassazioni nazionali  vigenti.
In sostanza le EPZ sono colonie territoriali delle multinazionali.
Alla fine del maggio del 2012 è stato segnalato che la Germania stava cercando “alternative” rispetto alla sua specifica gestione dell’austerità.
Di conseguenza è stato presentato un piano in sei punti per spingere la “crescita”.
Uno dei punti più interessanti è quello di creare “zone ad economia speciale da situare in paesi posti alla periferia della zona Euro” in modo che “gli investitori stranieri siano attratti verso queste zone per mezzo di incentivi fiscali e minori regolamentazioni“.
Essenzialmente possono essere viste come EPZ per la zona euro.
Questo piano prevede anche la creazione di fondazioni che organizzino la vendita di realtà statali all’interno di un più ampio progetto di privatizzazioni.
Inoltre, sempre secondo Berlino, sarebbe necessario un “sistema educativo dualistico che  combini il processo educativo standard ad una scuola vocazionale con apprendistato presso le aziende per permettere di combattere in questo modo l’alto tasso di disoccupazione giovanile”
In altre parole niente più educazione accademica per i giovani quanto piuttosto educazione “vocazionale” o “orientata al lavoro” in modo che i giovani non debbano avere grandi aspettative e siano già pronti ad una vita fatta di lavoro.
Ovviamente non poteva mancare in tale piano un maggiore sforzo per creare “flessibilità”, sforzo che avrebbe permesso “una perdita di vincoli che rendono difficoltoso il licenziamento di dipendenti con contratto a tempo indeterminato, una possibilità di ridurre tasse collegate e contributi legati al sistema sociale”.
In altre parole: rendere più facili i licenziamenti, le paghe più basse eliminando inoltre eventuali benefici.
Lucas Papademos, mentre era presidente della BCE, in un’intervista del 2005 con il Financial Times, affermò che il potenziale di crescita europeo era positivo ma aggiunse anche: “C’è il rischio, a meno che non intervengano cambiamenti politici con riforme del lavoro e del mercato e che non cambino i comportamenti degli agenti economici privati, che questo crescita possa essere vista al ribasso”
Chiarì ancora: “Il modo in cui la potenziale crescita potrebbe aumentare è quello di mettere in pratica politiche che stimolino la crescita di produttività aumentando le ore lavorate e rendendo il mercato del lavoro più flessibile ed adattabile
Nel 2010 il governatore della  Bank of England, Mervyn King, ha affermato che l’Eurozona necessita di “riforme strutturali, modifiche nella logica degli stipendi in quei paesi che necessitano di tornare ad essere competitivi”.
L’ex presidente della BCE Jean Claude Trichet ha segnalato con entusiasmo che ciò che era davvero necessario era un programma di austerità “accompagnato da riforme strutturali che promuovano una crescita a lungo termine
In altre parole quello di cui abbiamo bisogno sono povertà accompagnata da sfruttamento per ottenere profitti a lungo termine.
L’European Financial Stability Facility (EFSF) (in italiano Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria) è stato guidato da un uomo di nome Klau Regling.
In un articolo che ha scritto per The Banker,  Regling ha segnalato che fondi come l’EFSF si attivano solo a condizione che vengano rispettati alcuni precetti che includono ovviamente misure di austerità ma anche “riforme strutturali come l’ammodernamento della pubblica amministrazione, il miglioramento delle performance del mercato del lavoro e una migliore gestione del sistema di tassazione fiscale con l’obiettivo di aumentare la competitività del paese e il potenziale di crescita“.
In altre parole le condizioni imposte ai paesi che ricevano aiuti consistono in programmi d’impoverimento (“austerità”), combinati con sfruttamento (“riforme strutturali”) attraverso privatizzazioni di aziende statali (“modernizzare l’amministrazione pubblica”) creando forza lavoro a basso costo (“miglioramento delle performance del mercato del lavoro) al fine di aumentare il controllo (“competitività”) ed  il profitto (“crescita”).
Mario Draghi, come presidente della BCE, ha chiesto un “patto di crescita” (o “patto per il profitto”) per l’Europa che vada di pari passo con un “patto fiscale” (o “patto di povertà”).
Queste parole hanno trovato subito il favore del nuovo presidente francese Holland, di Angela Merkel e di Barroso.
Merkel ovviamente ha tenuto a far sapere che, comunque, la crescita deve essere raggiunta attraverso “riforme strutturali“.
La combinazione di “austerità fiscale” e “aggiustamenti strutturali” viene generalmente definita “programma globale di aggiustamento strutturale” o “ristrutturazione dell’economia”.
Questo linguaggio è importante perché “ristrutturare” è una parola che descrive due processi:
uno è quanto deve essere fatto per evitare il default di un paese e far tornare tale paese ad una fase di crescita.
l’altro è l’approccio da adottare per gestire la situazione di un paese DOPO il default.
La parola è la stessa e le politiche sono simili solo che in un caso, quello del dopo default, i processi collegati sono inflitti in modo molto più feroce.
Il processo che, ci viene detto, dobbiamo subire per evitare un default in realtà è lo stesso processo a cui siamo destinati in caso di fallimento.
La combinazione di austerità fiscale e aggiustamenti strutturali è, in realtà, un lento e doloroso default.
Questa combinazione produce una vera e propria devastazione sociale.
E le parole “programma di aggiustamento strutturale”, “ristrutturazione” e “default” si possono benissimo tradurre in genocidio sociale.
Questi tre termini offrono ulteriori spunti: il sistema delle classi va ristrutturato in modo che la middle-class e la borghesia vengano spazzate via e finiscano nella povertà, i poveri devono essere invisibili e l’élite deve aumentare controllo e potere.
Il sistema economico e politico deve essere modificato per rendere realizzabile questa ristrutturazione.
E le promesse che recitano che la società e i governanti devono servire l’interesse del popolo, questo, soprattutto questo deve andare in default.
Non è lo stato a fallire.
E’ il contratto sociale a fallire.
Esattamente come ha detto Mario Draghi al Wall Street Journale “il modello sociale europeo ormai è già andato…il consolidamento fiscale è inevitabile ed è tempo per le riforme strutturali”
Ovvero un genocidio sociale.
Come dice Orwell nel suo saggio del 1946 il “linguaggio politico è formato in gran parte da eufemismi, discussioni inutili e vaghe approssimazioni”
Ma esistono comunque significati ed intenti celati dietro le parole.
Quando traduciamo il linguaggio della crisi europea del debito queste parole rivelano un mostruoso progetto di impoverimento e sfruttamento.
E vediamo anche le ragioni che si nascondono dietro tale utilizzo: nessuno, per ovvie ragioni, può apertamente parlare di impoverimento e sfruttamento ed è per questo che vengono usate parole come “consolidamento fiscale”, “riforme strutturale”.
Perché sono vaghe ed oscure.
Infine è sempre possibile dire “abbiamo bisogno di un pacchetto globale di austerità che sia messo in atto attraverso riforme strutturali quali la flessibilità… in modo che tutto questo produca una maggiore competitività e permetta una possibile crescita” invece di dire “dobbiamo impoverire la nostra gente, sfruttarli fino in fondo, creando forza lavoro a basso costo in modo che aumenti il controllo su di loro e crescano i profitti”.
Una simile onestà porterebbe alla rivolta e quindi è necessario usare un linguaggio politico.
In Europa il linguaggio politico è parte di una “dialettica del potere” che sostiene politiche e programmi finalizzati a sostenere coloro che già hanno molto permettendo loro di avere ancora di più a scapito di chi ha poco o niente.
Per impoverire, sfruttare ed opprimere.
Per punire.
Per profitto.

Andrew Gavin Marshall è uno scrittore ed un ricercatore indipendente.
Si trova in Canada, a Montreal.
E’ autore di numerosi articoli di natura sociale, politica, economica e storica.
E’ responsabile inoltre del The People’s Book Project.
E’ disponibile un suo podcast settimanale in inglese “Empire, Power, and People,” su BoilingFrogsPost.com

www.znetitaly.org
Fonte: http://roarmag.org/2012/07/the-orwellian-language-behind-the-eurozone-debt-crisis/
Traduzione di Fabio Sallustro
Traduzione © 2012  ZNET Italy – Licenza Creative Commons   CC BY- NC-SA  3.0