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sabato 5 novembre 2011

La sfida al credito e l’inizio della rivoluzione

Questo che segue è un articolo uscito sul numero 1 della rivista Loop. L'autore viene considerato oggi (guarda prima pagina di Internazionale) uno dei principali sostenitori e teorizzatori del movimento americano che sta animando le città Usa.
http://www.looponline.info/index.php/home/651-la-sfida-al-credito-e-linizio-della-rivoluzione

Sembra di essere arrivati a un punto morto. Il capitalismo, così come lo abbiamo conosciuto, sta andando in pezzi. Ma, mentre le istituzioni finanziarie barcollano e cadono, non si vedono alternative evidenti. La resistenza organizzata sembra essere incoerente e frammentata, il movimento no global un’ombra di se stesso. C’è una buona ragione per ritenere che, nell’arco di una generazione o giù di lì, il capitalismo cesserà di esistere: semplicemente è impossibile mantenere un regime di crescita infinita in un pianeta finito. Di fronte a questa prospettiva, la reazione istintiva, anche dei “progressisti”, è, spesso, la paura, l’aggrapparsi al capitalismo perché semplicemente non si riesce a immaginare un’alternativa che non sia addirittura peggiore. La prima domanda che dobbiamo porci è la seguente: com’è potuto accadere?

È normale che gli esseri umani siano incapaci di immaginare come potrebbe essere un mondo migliore? La disperazione non è una condizione naturale. Deve essere indotta. Se vogliamo veramente comprendere l’attuale situazione dobbiamo cominciare con il prendere atto che gli ultimi 30 anni hanno visto la costruzione di un enorme apparato burocratico per la creazione e il mantenimento della disperazione, un modello di macchina gigantesca progettata, in primo luogo, per distruggere qualsiasi percezione di un possibile futuro alternativo. Alla sua origine, vi è una vera ossessione da parte dei padroni del mondo per assicurare che i movimenti sociali non crescano, non sboccino, non propongano alternative, e che coloro che sfidano l’attuale regime di potere non possano, in nessuna circostanza, essere percepiti come vincenti. Per farlo, è necessario creare un immenso apparato di eserciti, prigioni, polizia, varie forme di agenzie private di sicurezza, apparati di intelligence di polizia e militari, strumenti di propaganda di tutti i tipi, molti dei quali non contrastano direttamente le proposte per una alternativa, ma generano un clima pervasivo di paura, di conformismo sciovinista e di semplice disperazione, che riducono ogni idea di cambiamento a una vana fantasia. Mantenere questo apparato è più importante, per i fautori del “libero mercato”, del difendi  dere qualsiasi tipo di economia di mercato sostenibile. Come altro spiegare, ad esempio, quanto accaduto nella ex Unione Sovietica, dove si sarebbe potuto immaginare che la fine della Guerra fredda avrebbe portato allo smantellamento dell’esercito e del KGB e alla ricostruzione delle fabbriche ma, nei fatti, ciò che accadde fu precisamente l’opposto? Dal punto di vista economico, l’apparato in questione è un puro peso morto: tutte le armi, le telecamere di sorveglianza, le macchine di propaganda sono straordinariamente costose e, concretamente, non producono nulla. Di conseguenza, esso sta affondando l’intero sistema capitalistico e, forse, l’intero pianeta. La spirale della finanziarizzazione e l’infinita sequenza di bolle economiche cui abbiamo assistito sono una diretta conseguenza di tale apparato. Non è una coincidenza che gli USA siano diventati la principale potenza militare del mondo e contemporaneamente i più grandi promoter di titoli bidone. Questo apparato esiste per fare a brandelli e polverizzare l’immaginazione umana, per distruggere qualsiasi possibilità di raffigurarsi alternative future. Di conseguenza, ci è unicamente consentito immaginare sempre più denaro e spirali di debito completamente fuori controllo. Che cos’è il debito, dopo tutto, se non soldi immaginari il cui valore può essere realizzato soltanto nel futuro: profitti futuri, ricavi dello sfruttamento di lavoratori non ancora nati. Il capitale finanziario è il commercio di questi profitti futuri immaginari; una volta assunto che il capitalismo sia eterno, l’unico tipo di democrazia economica concepibile è la libertà ugualmente concessa a ognuno di investire nel mercato, di afferrare il proprio pezzo nel gioco dell’acquisto e vendita di profitti futuri immaginari, anche se parte di quei profitti saranno estratti dal suo stesso lavoro. La libertà è diventata il diritto ad avere una parte del provento del proprio asservimento permanente. E, dato che la bolla è stata costruita sulla distruzione del futuro, una volta che questa è esplosa il futuro stesso si è rivelato essere, almeno per il momento, semplicemente il nulla. Tuttavia, l’effetto è chiaramente temporaneo. Se la storia dei movimenti ci insegna qualcosa, ciò è che, nel momento in cui sembra che non vi sia alcuna percezione di sbocco, l’immaginazione immediatamente fa un balzo in avanti. Si tratta di quanto effettivamente accadde negli anni ’90, quando si vide, per un momento, come avremmo potuto dirigerci verso un mondo in pace. Negli Stati Uniti, negli ultimi 50 anni, ogni volta che è sembrata profilarsi la possibilità che la pace dovesse scoppiare è accaduta la stessa cosa: l’emergenza di un movimento sociale radicale dedito ai principi dell’azione diretta e della democrazia partecipata, con lo scopo di rivoluzionare il significato proprio della vita politica. Negli anni ’50, il movimento dei diritti civili; negli anni ’70 il movimento antinucleare, diffuso su scala planetaria, che ha sfidato frontalmente il capitalismo. Questi movimenti tendono a essere straordinariamente efficaci. Sicuramente lo è stato il movimento antiglobalizzazione. Pochi comprendono che una delle cause principali per cui è apparso e scomparso con tale rapidità è stata quella di aver raggiunto velocemente i suoi principali obiettivi. Nessuno di noi sognava, mentre stava organizzando le proteste a Seattle nel 1999 o alla riunione del FMI a Washington nel 2000, che nel giro di tre o quattro anni il sistema di scambio disegnato dal WTO sarebbe collassato, che le ideologie del “libero scambio” sarebbero state quasi totalmente screditate, che ogni nuovo accordo commerciale ci scagliassero contro, dal MIA al Free Trade Areas dell’American Act, sarebbe stato vanificato, la Banca Mondiale azzoppata, il potere del FMI sulla maggioranza della popolazione del mondo distrutto. Ma è esattamente ciò che è accaduto. Il destino del FMI è particolarmente sorprendente. Da terrore del Sud del mondo a residuo in frantumi di se stesso, oltraggiato e screditato, ridotto a vendere le sue riserve auree e alla di- sperata ricerca di una nuova missione globale. Intanto, la maggior parte del debito del Terzo Mondo è semplicemente svanita. Tutto ciò è stato il diretto risultato di un movimento che si è impegnato a mobilitare una resistenza globale in maniera così efficace che, innanzitutto, le istituzioni regnanti furono screditate, e poi i governi in Asia e soprattutto in America Latina furono indotti dai propri popoli a smascherare il bluff del sistema finanziario internazionale. Il movimento entrò in crisi soprattutto perchè nessuno di noi aveva realmente sperato di poter vincere. Ma, naturalmente, c’è un’altra ragione. Nulla terrorizza i padroni del mondo, e particolarmente degli Stati Uniti, più del pericolo della democrazia di base. Ogni volta che un movimento sinceramente democratico inizia a emergere, in particolare se basato sui principi della disobbedienza civile e dell’azione diretta, la reazione è la stessa; il governo fa delle concessioni immediate (bello, puoi ottenere i diritti di voto; il non utilizzo delle testate nucleari), quindi inizia una escalation di tensioni militari all’estero. Il movimento è quindi costretto a trasformarsi in un movimento contro la guerra; che, abbastanza invariabilmente, è organizzato in maniera molto meno democratica. Così, il movimento dei diritti civili viene seguito dal Vietnam; il movimento antinucleare dalle guerre per procura in Salvador e Nicaragua; il movimento no global dalla “Guerra al Terrore”. Ma, a questo punto, possiamo vedere la guerra per ciò che realmente rappresenta: il tentativo scatenato, e ovviamente destinato al fallimento, di un potere in declino di rendere la sua peculiare combinazione di macchina da guerra burocratica e capitalismo finanziario speculativo una condizione globale permanente. Se questa architettura marcia è crollata improvvisamente alla fine del 2008, ciò è dipeso anche perché buona parte del lavoro era stata conclusa da un movimento che, di fronte all’incremento della repressione dopo l’11 Settembre, sarebbe poi entrato in crisi su come proseguire dopo i successi iniziali, e quindi sembrò scomparire. Naturalmente non scomparve realmente. Ci troviamo chiaramente agli albori di un’altra insorgenza di massa di immaginazione popolare. Non dovrebbe essere così difficile. Molti degli elementi sono già presenti. Il problema è che non siamo più in grado di vederli, in quanto le nostre percezioni sono state distorte da decenni di propaganda incessante. Consideriamo la parola “comunismo”. Raramente una parola è stata tanto oltraggiata. La linea ufficiale, che accettiamo più o meno senza riflettere, è che comunismo significhi controllo dello Stato sull’economia, e che sia un sogno utopico irrealizzabile perché la storia ha dimostrato che semplicemente “non funziona”. Il capitalismo, sebbene possa non piacere, rimane l’unica opzione possibile. Ma di fatto con comunismo possiamo indicare qualsiasi situazione dove le persone agiscono secondo il principio “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, che è il modo pressappoco in cui ognuno agisce quando coopera con altri. Se due persone stanno riparando una tubatura e uno dice “passami la chiave inglese”, l’altro non risponde “che cosa ci guadagno?”, se veramente è intenzionato a ripararla. Ciò è sempre vero, anche se i due sono impiegati di Bechtel o Citigroup. Applicano i principi del comunismo perché è l’unica maniera che funzioni realmente. Questa è anche la ragione per cui intere città o paesi tornano verso alcune forme di comunismo rudimentale, in conseguenza di disastri naturali o di crisi economiche (si potrebbe dire che in quelle circostanze i mercati e le catene gerarchiche di comando sono lussi che non ci si può permettere). Laddove è richiesto il massimo della creatività e la maggior parte delle persone devono improvvisare per svolgere il proprio compito, è probabile che si sviluppi la forma di comunismo più egualitaria: gli informatici,  quando tentano di innovare il loro software, tendono a formare piccoli collettivi democratici. È solo quando il lavoro diviene standardizzato e noioso, come nelle catene di montaggio, che diventa possibile imporre forme di comunismo più autoritarie, anche fasciste. Ma la questione è che anche le imprese private sono organizzate comunisticamente al loro interno. Quindi il comunismo è già qui. La questione è come sia possibile democratizzarlo ulteriormente. Il capitalismo, intanto, è solo uno dei modi possibili di applicazione del comunismo e, come ormai appare sempre più chiaro, si è rivelato disastroso. È necessario pensare qualcosa di migliore, che preferibilmente non ci faccia scannare l’uno con l’altro in maniera così sistematica. Quanto detto rende molto più semplice comprendere la ragione per cui i capitalisti siano disponibili a riversare risorse straordinarie nel meccanismo della disperazione. Il capitalismo non è solo un cattivo sistema per gestire il comunismo: ha una nota tendenza a smantellarsi periodicamente. Ogni volta che accade, coloro che ne traggono profitto debbono convincere tutti, soprattutto i tecnici, i medici, gli insegnanti, gli ispettori e i periti delle assicurazioni, che non esiste altra scelta se non ricominciare daccapo in maniera simile al passato. Ciò nonostante che molti tra coloro che finiranno a fare il lavoro di ricostruzione del sistema spesso non amino lo stesso, e tutti abbiano almeno il vago sospetto, radicatosi nelle innumerevoli esperienze personali di comunismo quotidiano, che dovrebbe essere possibile istituire un sistema un po’ meno insensato e iniquo. Perché, come dimostrato dalla Grande Depressione del 1929, l’esistenza di qualsiasi alternativa che possa apparire plausibile - anche dal destino incerto come lo è stata l’esperienza dell’Unione Sovietica degli anni ’30 - può determinare lo scivolamento in una crisi politica apparentemente insolubile. Coloro che desiderano sovvertire il sistema hanno ormai imparato dall’amara esperienza che non possiamo fidarci degli Stati. L’ultimo decennio ha visto infatti lo sviluppo di migliaia di forme di associazionismo di mutuo soccorso, la maggior parte delle quali non arrivano sui media globali. Spaziano da piccole cooperative e associazioni a grandi esperimenti anticapitalistici, reti di fabbriche occupate in Paraguay o in Argentina, piantagioni di tè e comunità di pescatori autorganizzate in India, istituti autonomi in Corea, intere comunità insorte in Chiapas o in Bolivia, associazioni di contadini senza terra, occupanti di case nelle metropoli, comitati di quartiere che spuntano ovunque non appena il potere dello Stato e del capitale globale allenta temporaneamente la presa. Spesso non hanno una compattezza ideologica e molti non sono nemmeno a conoscenza dell’esistenza degli altri: tutti si contraddistinguono dal desiderio comune di rompere con la logica del capitale. E, in molti contesti, stanno iniziando a farlo. L’“economia solidale” esiste in tutti i continenti, in almeno 80 diversi paesi. Siamo al punto in cui possiamo cominciare a percepire le linee guida di come queste esperienze si possano saldare a livello globale, creando nuove forme di comunità planetarie e favorendo una vera insorgenza di civilizzazione. Se le alternative sono visibili, mandano in frantumi il sentimento che sia inevitabile mettere una toppa al sistema e restaurarlo nelle consuete forme. A quel punto diventa un imperativo della governance globale soffocarle o, quando ciò non sia possibile, assicurarsi che non se ne abbia notizia. Divenire consapevoli di ciò ci permette di vedere le cose che stiamo già facendo da una nuova prospettiva. Per capire che noi tutti siamo già comunisti quando lavoriamo a un progetto comune, siamo già anarchici quando risolviamo problemi senza ricorrere a polizia e avvocati, siamo rivoluzionari quando facciamo qualcosa di realmente innovativo. Si potrebbe obiettare: una rivoluzione non può limitarsi a questo. È vero. Sotto tale profilo i grandi dibattiti strategici sono appena  all’inizio. Tuttavia, vorrei dare un suggerimento. Per almeno 5000 anni, i movimenti popolari si sono concentrati sulle lotte contro il debito, anche prima che il capitalismo esistesse. C’è una ragione per questo. Il debito è il mezzo più efficiente mai escogitato per far accettare relazioni sociali basate sulla violenza e sulla diseguaglianza, e per far sembrare che esse siano giuste e dotate di fondamento morale. Quando il trucco smette di funzionare, il sistema esplode: noi siamo in questa condizione. Chiaramente il debito si dimostra essere il punto di maggior debolezza del sistema, ciò che lo fa andare completamente fuori controllo. Al contempo, ci apre infinite opportunità di organizzazione. Alcuni parlano di sciopero dei debitori, o di un cartello dei debitori. Forse è giusto farlo, ma almeno si potrebbe iniziare con un impegno contro gli sfratti: quartiere per quartiere, a supportarci qualora qualcuno di noi dovesse essere cacciato di casa. La potenza di questa impostazione non dipende solo dal fatto che sfidare il regime del debito significa sfidare la vera anima del capitalismo, le sue fondamenta morali ora rivelatesi un insieme di promesse non mantenute, ma che perseguendo ciò si crea un nuovo regime. Un debito dopo tutto è solo una promessa, e il mondo attuale abbonda di promesse non mantenute. Si potrebbe parlare a questo punto della promessa fattaci dallo Stato, e cioè che, se avessimo rinunciato a gestire collettivamente i nostri affari, ci sarebbe stata garantita almeno la sicurezza di base. O la promessa, fattaci dal capitalismo, di poter vivere come re comprando merci e rimanendo in uno stato di subordinazione collettiva. Tutto ciò è venuto a crollare. Quanto rimane è ciò che siamo in grado promettere l’uno all’altro. Direttamente. Senza la mediazione di burocrazie economiche e politiche. La rivoluzione comincia quando ci si chiede che tipo di promesse uomini e donne liberi possono farsi reciprocamente e come, attraverso di esse, iniziare a costruire un altro mondo.
Tratto da Loop numero 1